Cento anni di pagine a fior di pelle Il Magazin strappa ancora un sorriso
Haim Cattaneo Treves ha 20 anni, è nato a Torino e studia Storia e Etnologia europea alla Humboldt Universität di Berlino. Suona nella formazione d’archi dell’Orchestra sinfonica del prestigioso ateneo, che questa settimana eseguirà il Poema sinfonico opera 29 di Sergej Rachmaninow e la Prima sinfonia di Gustav Mahler. È impegnato nel nascente Comitato dei garanti di questo giornale, che sarà formato da giovanissimi suoi coetanei. Ha accettato di raccontare ai nostri lettori i cento anni di una rivista controcorrente che ha segnato il Novecento e che continua a credere nella carta stampata e nel lavoro duro e appassionante di scrivere ogni mese le storie della vita. Questo che segue è il suo primo testo pubblicato da una testata giornalistica. A lui, a Ada von Būlow che gli è a fianco, a tutti i suoi cari, la gratitudine e il caloroso Mazal Tov di questo giornale. Dare voce al valore dei nostri giovani è il segno dell’onore e la fonte dell’energia che di giorno in giorno sostiene l’impegno di queste pagine. Shehecheyanu.
Haim Cattaneo Treves
Cento anni a fior di pelle. Nato un secolo fa e più volte risorto, un originale periodico berlinese festeggia cento anni di vita, continua ad affascinare molti lettori e non si arrende alla crisi della carta stampata. Oggi i nudi ci annoiano e non ci stupiscono più, ne siamo circondati, ne abbiamo visti troppi. C’è stato un tempo però, in cui il nudo non era concepito come pornografia, ma come arte, come pura bellezza e come libertà. Che il nudo sia stato corrotto da una pratica consumistica, come d‘altronde molte altre cose, non è un segreto per nessuno. Che il nudo sia stato a lungo usato come una discreta forma di protesta silenziosa, come atto materiale della riappropriazione di una libertà intellettuale negata invece, non è da dare per scontato.
La storia delle libertà individuali è strettamente legata alla possibilità dell‘individuo di mostrare il proprio corpo nudo, senza connotazione erotica.
Ci fu un Paese in particolare, dove il tema della nudità fu sentito e usato come forma di rivolta, fu concesso e vietato, sostenuto e impedito, si sviluppò in un’arte che non mancò di essere moralmente criticata, fu tanto uno strumento politico quanto una normale pratica. Questo stato non esiste più, eppure esiste ancora. È scomparso nel 1989, ma i suoi abitanti, spesso dimenticati, vivono ancora fra coloro che per anni sono stati descritti come acerrimi nemici appartenenti al mondo del male. Si tratta della Repubblica Democratica Tedesca, la DDR.
In questo Stato, tutto particolare, si pubblicava un giornale chiamato „Das Magazin“, anch’esso tutto particolare.
Sulle sue pagine era possibile trovare uno dei migliori esempi di utilizzo, consapevole o meno, della nudità allo stesso tempo come contenuto leggero ed erotico, così anche come arte nel senso letterario e fotografico, e ancora come strumento politico di critica e di contestazione.
Recentemente questo giornale ha compiuto il suo centesimo compleanno, e come tutto ciò che vive, la sua storia è divisa in diverse fasi e vale la pena di essere raccontata.
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Il giornale cancellato
In questo incessante vagabondare che porta con sé il tentativo di far nascere giornali nuovi, una delle emozioni che più mi sono rimaste impresse è il senso di mancanza, espresso spontaneamente da molti interlocutori, riguardo alla scomparsa di un recente progetto di giornale apparentemente sprofondato nel nulla.
Mi riferisco al sito JoiMag, a lungo punto di riferimento di una delle tante sfaccettature dell’ebraismo progressista italiano. In alcuni anni di lavoro le persone che si sono impegnate a realizzarlo avevano conquistato un pubblico vasto e affezionato che poi, sulla base delle voci che ho raccolto, evidentemente non si capacita della scomparsa repentina della testata.
Anche i giornali muoiono, non è una novità. E talvolta questo non capita a quelli di cui si potrebbe utilmente fare a meno, ma al contrario, a quelli cui più teniamo.
Le voci che ho raccolto mi hanno indotto a un viaggio a ritroso per scoprire una testata ammutolita, che in passato colpevolmente ho sempre trascurato e mai seguito con attenzione. Volevo capire cosa c’era nel cuore dei lettori che ne lamentano la scomparsa, volevo comprendere come è possibile perdersi per strada sbadatamente anche le cose di maggior valore, e ancora più fortemente ho voluto capire meglio cosa è stato questo giornale per chi si è impegnato a realizzarlo. La scomparsa di Joimag è un dolore che condivido, pur non essendo mai stato capace di esserne un lettore, e tantomeno un simpatizzante. Per fare i giornalisti non credo siano indispensabili affiliazioni ideologiche, basta un poco d’amore per la libertà.
Per questo sono andato a cercare la collega Micol De Pas, che dopo Daniela Ovadia e altri coraggiosi, più ha contribuito alla sua riuscita e che ha vissuto sulla propria pelle il dolore della morte di JoiMag.
Ho scoperto una collega sincera, sensibile, intelligente, generosa. Ma non basta. Ho ricevuto in dono il testo che segue e che vorrei condividere con il lettore.
JoiMag è morto e forse non tornerà, ma voglio dire a tutti che da questa perdita credo sia nata un’amicizia per me preziosa. E i giornali, tutti i giornali, se sono vivi davvero, nascono da una qualche sorta di amicizia.
Quando si dice che i giornalisti italiani valgono poco, travolti dall’obbligo di produrre contenuti in una logica quantitativa, dalla necessità di tirare a campare, dal servilismo nei confronti dei potenti; si dice cosa vera.
Ma restano strade nuove ancora da esplorare. E colleghi coraggiosi che aspettano in silenzio solo l’occasione giusta, qualcuno che stia loro accanto a sgombrare la via, per tornare a levare liberamente la propria voce.
gv
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Micol De Pas
Cominciamo dal nome, Joi: Jewish Open Inclusive. Ovvero, un luogo aperto e inclusivo, capace di raccontare la cultura ebraica contemporanea. Quel luogo era un magazine online dove praticare la curiosità in forma di cronaca, per riportare, dall’Italia e dal mondo, le molteplici forme che l’ebraicità esprime al tempo presente, insieme alle ragioni storiche che nel corso dei secoli ne hanno composto le identità. Al plurale, sì, perché l’apertura di cui si parla nel nome della rivista impone di considerare i molteplici modi di essere ebrei. Mi sentivo bene in quel piccolo angolo di libertà, quasi un portofranco dove potevo occuparmi di qualcosa di estremamente vitale, di un magma in continuo ribollire la cui essenza si sviluppava senza soluzione di continuità da diversi secoli.
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Diritti umani e parole malate
Enzo Campelli
Università di Roma – La Sapienza
Tutte le parole, naturalmente, hanno una storia, socialmente costruita nel tempo attraverso mediazioni e combinazioni, scambi e conflitti. I significati originari cambiano e sfumano con l'uso, talvolta sedimentando locuzioni che "non sanno nulla" dei processi che le hanno generate. Chi mai penserebbe, per fare un solo esempio, alle tragedie storiche insite nell’immagine del "vile marrano", usata come insulto in tanta letteratura? Un intero mondo di rappresentazioni sociali, di contenuti culturali e di stereotipi, di rapporti di potere e di affettività profonde si nasconde nelle parole. Molto spesso si tratta di storia «minore», e questo tipo di archeologia del sapere rimane di pertinenza tranquilla, e qualche volta curiosa, degli studiosi di etimologia. Ma in realtà le parole non si limitano affatto a designare qualcosa: piuttosto ne trasmettono una immagine culturale carica di valore, consolidandola e accreditandola con l’uso, ogni volta di più. Le parole, insomma, talvolta costruiscono attivamente il mondo piuttosto che limitarsi a indicarlo. Ma sono, queste, osservazioni vecchie e risapute, su cui la semiologia e la sociologia del linguaggio, l'antropologia e la filosofia hanno indagato a lungo. In alcuni casi però – o piuttosto in alcuni momenti storici - questa forza che le parole hanno di costruire il mondo piuttosto che di indicarlo, di evocare piuttosto che designare, può raggiungere livelli straordinari, capaci di mobilitare individui, idee, movimenti collettivi, travolgenti passioni politiche.
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La libreria sul confine invisibile
Ha visto levarsi le fiamme nere che segnarono il battesimo di fuoco del fascismo. Ha visto il grande edificio del Balkan, il simbolo della presenza degli slavi in Italia, divorato dalle fiamme. Ha visto la prigionia e l’esecuzione di Guglielmo Oberdan, martire sbandierato del nazionalismo italiano. Ha visto le stanze delle torture delle SS, il balcone da cui i partigiani proclamarono l’insurrezione. La resa degli occupanti nazisti e dei fascisti loro servi. L’arrivo delle truppe jugoslave che tentarono di trascinare la città nel blocco orientale, l’ingresso delle truppe alleate, il ritorno dell’Italia dopo 10 anni con il fiato sospeso. Le manifestazioni del Primo maggio. La scritta che nelle quattro lingue parlate in questo angolo di terra proclama il nome della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia.
E il titolo in copertina di un durissimo romanzo dello scrittore triestino Boris Pahor.
Ha visto fiumi di ragazzi arrivare in città al capolinea della linea 2, la funicolare che collega la città al Carso, e con tutti gli autobus che convergono dai villaggi dell’altipiano.
Un cuore intelligente
Un nuovo giornale per questi tempi difficili. Un nuovo giornale per dare risalto alle voci delle culture minoritarie. D’accordo, se è vero che abbiamo un’alta propensione al rischio possiamo provarci. Ma siamo onesti, ogni tentativo sarebbe destinato a fallire se non potessimo contare sull’aiuto di amici senza pari. Per seguire il coordinamento della redazione e dei flussi produttivi di questo progetto era necessario un cuore intelligente.
Fra i cuori e le intelligenze che ho avuto la fortuna di incontrare nessuno poteva combinare questi fattori meglio di Angelica Bertellini.
Quando le ho fatto leggere il testo sulla Quattordicesima sinfonia e l’ho avvertita che era necessario mettersi al lavoro per costituire un comitato dei garanti composto da giovanissimi, mi ha risposto con il testo che il lettore trova qui di seguito.
Mi sono rivolto a lei senza timidezze e con molte speranze. Ha accettato con un cenno lieve, come fosse cosa ovvia. Non avevo nulla da offrirle in cambio, altro che qualcosa in cui credere assieme. Sogni, speranze, ideali antichi da lanciare ancora e ancora controvento, al di là del muro dell’indifferenza. (gv)
Angelica Bertellini
“Proviamo a fare un giornale, partendo da tre semplici e chiare affermazioni: giornalismo indipendente, libere opinioni, culture di minoranza […] Consapevoli dei nostri limiti, ma senza vergognarci delle nostre speranze.”
Dopo un lungo silenzio il direttore è tornato. Nove praticantati che hanno lanciato nel mondo del lavoro giornalistico professionisti fuori dal comune e migliaia di pagine emozionanti e appassionanti, evidentemente non gli sembravano abbastanza. Dozzine di collaboratori di prestigio pronti a donare le proprie idee, nemmeno. La raccolta dell’Otto per mille a favore dell’ebraismo italiano proiettata d’un balzo ai suoi massimi storici a colpi di tirature da record non si mette nemmeno a commentarla. Res severa… Verum gaudium… È tornato e lavora in silenzio.
Ma pare che questo giornale voglia mostrare da subito cosa intenda con una tale presentazione: un comitato di garanti composto da giovani! Quale speranza più grande, presente e viva?
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La quattordicesima sinfonia
La settima sinfonia, la sinfonia di Leningrado, è un monumento alla liberazione dall’aggressione nazifascista. La decima sigilla la fine del terrore stalinista.
La musica di Dmitrij Šostakovič non ha nulla di ornamentale, non è fatta per lasciare indifferenti, e nemmeno per quietare gli animi. Ti invade, ti scuote, ti spaventa e infine riesce a staccarti dal suolo e a buttarti in aria.
Si soffre, talvolta, ma mai inutilmente. La libertà, la dignità della vita e dell’amore, sono temi che ritornano in ogni nota. Chiodi piantati sul fondo della nave della vita.
Quando Andris Nelsons è salito sul podio della Gewandhaus di Lipsia, per dirigere finalmente la quattordicesima sinfonia del compositore russo, il festival dedicato a Šostakovič volgeva ormai al termine e le emozioni del pubblico sembravano raggiungere il vertice delle canne del gigantesco organo che sovrasta la mitica sala da concerto.
Fra i principali vanti culturali della Germania orientale, la nuova Gewandhaus, aperta nel 1981, al centro della rivolta che ha abbattuto nel 1989 la dittatura e restaurato la democrazia, ha retto alla prova del tempo. In una disposizione coraggiosa che non ha perso nulla del suo ardore originario e appare tutt’ora insuperata, il pubblico per la prima volta circonda l’intera orchestra avvolgendola da ogni prospettiva e da ogni altezza.
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Proviamo a fare un giornale
Il lavoro dei giornalisti è sempre più spesso inquadrato e soffocato da iniziative editoriali condizionate. Interessi imprenditoriali e istituzionali mirati a condizionare il mondo dell’informazione si fanno sentire in maniera crescente. Lasciamo spazio ai giornalisti che vorrebbero esprimersi ed esercitare la loro professione in tutta umiltà, ma anche in tutta libertà. Ogni limitazione alla libertà d’opinione deve essere rara, e giustificata dalla preoccupazione di rispettare la legge e le regole di rispetto reciproco. Nessun altro limite può essere tollerato. Perché, oggi più che mai, la libertà d’opinione è minacciata. E il primo dovere di una minoranza è quello di esporsi, di offrire all’intera società la propria visione dei problemi e degli avvenimenti. Le minoranze che si lasciano intimidire, scelgono di tacere o cedono alla tentazione di rintanarsi nella chiusura, si riducono a essere dei semplici gruppi di interesse. Proviamo a fare un giornale.